Questa guida deriva dall’esigenza di cercare di chiarire il fatto che non sempre il numero di visite determina la funzionalità e sopratutto l’efficacia di un sito.
A questo proposito proveremo a dare una risposta alla domanda :”a cosa serve e soprattutto a CHI serve un sito?”.
Navigando nella rete e facile imbattersi in una variegata tipologia di siti ma ogni pagina web, “come il gioco delle scatole cinesi”, offre una serie di spunti di riflessione legati tra loro.
In effetti, il primo problema da risolvere è come attirare l’utente (a questo proposito vedasi l’articolo Internet Marketing lesson 1). Il secondo problema è far sì che l’utente interagisca con la realtà rappresentata dal sito web ed infine un’altra spinosissima questione è come far tornare un utente in poche parole come fidelizzarlo.
A cosa serve e soprattutto a CHI serve un sito?.
La maggior parte dei siti sono dei “siti vetrina”. Servono solo a contribuire a quella che viene comunemente chiamata “brand awareness” vale a dire rafforzare la consapevolezza della presenza di un determinato marchio, prodotto, o servizio sul mercato.
In secondo luogo esistono i “portali” che offrono una pluralità d’informazioni di tipo eterogeneo.
Accanto a questi esistono i cosiddetti “vortali”. Tali siti contengono una molteplicità d’informazioni monotematiche.
Infine, esistono siti dedicati all’e-commerce.
Ovviamente, si tratta di una panoramica estremamente semplificata e succinta ma che serve ad introdurre le seguenti considerazioni.
In primo luogo, la maggior parte dei siti non è aggiornata (tecnicamente questo fenomeno è chiamato “dead sites”).
Spesso si legge “ultimo aggiornamento 24 marzo 2003” o cose simili. Tale circostanza può forse essere tollerata per gli “static sites” siti cioè dal contenuto non interattivo ma negli altri casi questo fenomeno va evitato assolutamente.
Se paragoniamo un sito contenente informazioni ad una edicola credo che nessuno tornerebbe da un edicolante che abbia solo giornali di qualche mese fa.
Un altro problema è che la maggior parte dei siti sono sotto o sovra dimensionati per quelle che sono le esigenze dell’utenza finale. Ciò accade a mio avviso perché le aziende tendono spesso a promuovere se stesse e non a pensare alla effettive esigenze ed aspettative del cliente.
Esistono dei siti dedicati a fornire informazioni, riferimenti, indirizzi o dati dove occorre destreggiarsi fra link assoluti, link interrotti, tempi di loading, ed animazioni.
La grafica ha preso spesso il sopravento sulla funzionalità.
Una volta visitato il mio sito poi che cosa accade?
Salvo poche eccezioni, non c’è un’effettiva consapevolezza del ritorno commerciale e/o d’immagine di un sito.
L’attenzione è sempre posta agli “hit” (visite) ma, e qui sta il bello della questione, una visita NON necessariamente si trasforma in “azione” (tale aspetto corrisponde a ciò che il mondo del marketing anglosassone chiama “return into action”).
Infatti, non è detto che un sito molto visitato sia effettivamente un sito efficace. Ad esempio, un sito di autonoleggi può anche ricevere una miriade di visite a titolo puramente conoscitivo ma se nessuno poi di fatti noleggia una macchina tale sito zoppica.
Nella nostra esperienza ci saremo sicuramente imbattuti nella nostra città in vari negozi dove si entra volentieri, attirati magari da una simpatica vetrina, ma dopo un rapido giro ricognitivo si esce senza aver acquistato nulla. Con questo non voglio dire che un sito deve vendere sempre e comunque ma il numero di visite non necessariamente determina la “salute del sito”.
Per quale motivo una volta visitato il sito X dovrei interagire con quella realtà?
Tale problema non riguarda forse i portali che offrono informazioni ma non è il caso della maggior parte dei siti dove qualcuno vuole offrire o promuovere qualcosa.
Il ritorno commerciale meglio noto come R.O.I (“return of investment”) è un argomento facilmente quantificabile nella realtà ma in Internet le cose si fanno più complicate.
Seth Godin, padre del “permission marketing” e guru del marketing on-line ha già da tempo spiegato quali siano le difficoltà del marketing e dell’advertising on-line fornendo numerosissimi consigli.
Ad esempio, gli assegni o buoni sconto elettronici sono dei sistemi efficaci per indurre il visitatore del sito ad interagire con una determinata realtà.
Infatti, offrono sconti per i propri acquisti on-line o presso il punto vendita (ove possibile). Per quanto riguarda gli altri siti che non hanno per oggetto la vendita di un bene o servizio ci sono innumerevoli possibilità per coinvolgere l’utente. Un sito di cucina può ad esempio permettere di scaricare ricette e consigli e così via.
In poche parole ci deve essere l’occasione per poter iniziare un dialogo , anche se a distanza, fra il titolare del sito o il suo gestore e l’utente.
Purtroppo, queste realtà non sono frequenti e fenomeni di “non-marketing” come lo spamming imperversano on-line.
Un altra questione che contribuisce notevolmente al “cybercaos” è che ormai da parecchi anni si assiste ad una vera e propria frenesia per avere un proprio sito. Non è difficile ipotizzare che un sito diventi presto un bene di consumo come il telefono cellulare.
Purtroppo, la corsa alla realizzazione di siti come se fosse la corsa all’oro non ha senso. Infatti, la maggior parte degli sforzi è quasi sempre finalizzata alla messa on-line del sito ma la vera difficoltà sta nella gestione.
Molte web agencies offrono soluzioni già preconfezionate ed addirittura cercano di battere tutti i record tentando di portare un neofita assoluto a mettere on-line da solo il proprio sito in poche ore. Ancora una volta è utile prendere spunto dalla “realtà reale” per comprendere meglio quella “virtuale”.
Se paragoniamo un sito ad un negozio con tanto di locale, vetrine, merce, cassa, etc è possibile osservare delle storture nelle strategie adottate. Molti, ad esempio, ricorderanno qualche anno fa il boom dei videonoleggi. Chiunque avesse dei soldi da investire riteneva che quel tipo d’attività fosse come il pozzo dei desideri.
Ma il motivo principale perché un negozio va avanti e l’altro chiude i propri battenti sta soprattutto nella capacità gestionale del titolare dell’attività. Nella mia esperienza ho visto negozi fantascientifici reggere dieci/dodici mesi mentre la piccola bottega del calzolaio nel mio quartiere resiste da più di trenta anni.
Perché?
Se volete aprire un negozio non importa se avete 200 metri quadri a disposizione e siete in pieno centro storico. Se non avete una capacità gestionale a prova di bomba siete condannati in partenza.
Proprio per questo motivo tanti franchising hanno successo. La loro forza è dovuta proprio al trasferimento della capacità gestionale (il cosiddetto know how ). Un franchisor offre ai propri affilati (franchisee) ciò che gli anglosassoni chiamano “proving system”. Un sistema di gestione collaudato in grado di assicurare dei risultati.
Purtroppo, questo “proving system” non si può improvvisare. Infatti, chiunque sa cuocere un hamburger ma nessuno sa trasformare un hamburger in denaro come lo fa Mac Donald.
Ebbene tornando ai siti web accade esattamente la stessa cosa. In Canada e negli Stati Uniti (paesi all’avanguardia per quanto riguarda le internet solutions) esistono delle società che mettono a disposizione la propria capacità gestionale al servizio del titolare del sito.
Invece, nel nostro paese un numero sempre crescente d’aziende investono le proprie risorse in un sito e da quel momento in poi attendono da sole che qualcuno, mosso da una curiosità bruciante, interagisca in qualche modo con loro.
Avere un sito internet e sperare di essere visitati equivale a buttare un amo nell’oceano e sperare che qualche pesce abbocchi. La sfida sembra essere appetibile ma il problema nasce quando non si sa come “cucinare il pesce pescato”.
Pertanto, è facile intuire come nella maggior parte dei siti vi sia un problema di ottimizzazione di costi e risultati. Ogni committente di un sito dovrebbe chiedersi se ha speso bene i propri soldi così come ogni utente dovrebbe porsi la domanda se ha trovato effettivamente ciò che stava cercando.